Pensavo alla paradossale differenza fra essere contenti e accontentarsi.

Essere contenti è una condizione esistenziale, l’obiettivo di una ricerca continua che facciamo tutta la vita. Cerchiamo di essere contenti, di rendere felici noi stessi e le persone che amiamo, attraverso la realizzazione di obiettivi.

La meccanica presente-futuro è lo scenario dove si va alla ricerca di quella felicità.

Accontentarsi, invece, ha la sua origine nell’essere contenti, ma contiene una differenza fondamentale: è un concetto passivo.

Significa farsi andare bene una cosa, una situazione in cui ci si trova.

Ho visto una giovane mamma che ritirava il pacco viveri alla Caritas, e che diceva al suo bambino: “Dobbiamo accontentarci.”

Ho incontrato una signora anziana al supermercato, in fila davanti a me, che contava i centesimi per riuscire a pagare un litro di latte e dei biscotti. “Bisogna accontentarsi” mi ha detto, mentre se ne andava.

C’è qualcosa, però, che mi fa stare male in questa passività.

La meccanica è sempre presente-futuro, ma i significati sono diversi: il futuro preoccupa e spaventa. Allora meglio l’uovo oggi, meglio poco di niente, meglio accontentarsi.

Il paradosso è nella morte dell’ottimismo: meglio spendere tutto subito, farsi andare bene un presente ingiusto, piuttosto che puntare su un domani incerto.

Il nostro sistema sociale e culturale è cambiato: la fascia di fragilità, che è implicita in una società neo-liberista, sta diventando sempre più affollata e sta modificando il suo atteggiamento nei confronti del presente e del futuro.

Di più: stiamo modificando il nostro modo di pensare, insinuando la rassegnazione come necessità, come condizione ineluttabile e naturale per sopravvivere.

Il primo germe della disfatta è la convivenza psicologica con la percezione di sé come sconfitti.

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