Fa discutere, il tema dell’eutanasia, perché muove le coscienze e tocca nel profondo uno dei più grandi tabù del nostro tempo: la morte.

L’esito più naturale, che accomuna tutti gli esseri animati, è un argomento di cui non si vuole, non si può e non si deve parlare.

Ma io ne ho voluto trattare, nei miei libri.

Il nostro assetto giuridico, il sistema sanitario e sociosanitario, l’architettura di una buona parte dei diritti civili proteggono la vita, come bene-in-sé, a prescindere dal parere di chi la fruisce.

Manca un confine, manca il punto estremo di questa protezione, quando il diritto alla vita diventa dovere, accanimento, oltraggio alla dignità.

Quando la morte, vista soggettivamente come il termine di un’esistenza che coincide con la sofferenza, potrebbe e dovrebbe diventare l’elemento paradossalmente da tutelare.

E non parlo tanto del non-accanimento terapeutico, faticosamente entrato nella filosofia dei servizi come cure palliative.

Non voler semplicemente parlare di eutanasia significa negare il problema e lasciare nell’angoscia tante persone, che si troverebbero, in solitudine, nella disperata condizione di dover cercare e determinare la fine, di queste sofferenze.

Credo che ognuno possa e debba valutare se ritenere la propria vita una cosa degna di essere vissuta oppure no.

Da un certo punto di vista mi rassicura sapere di poter decidere in ogni istante se e quando scrivere la mia parola fine, e poterla pronunciare ad alta voce.

E vorrei un giorno poter essere aiutato a farlo, se non sarò in grado da solo.

E se non sarà lo Stato, ad aiutarmi, vorrei poter essere certo che lo Stato non perseguiterà chi lo farà al posto mio.

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