Il ruolo dell’assistente sociale è strettamente legato al disagio e alla sofferenza.

Coloro che pensano (a ragione) che sia insito nel nostro ruolo accogliere la persona, spesso confondono (a torto) il livello dell’accoglienza con quello della passività.

La rabbia, la frustrazione che la persona con disagio può vivere, spesso viene scaricata sull’assistente sociale in termini di capro espiatorio, di anello debole di una catena istituzionale forse non in grado di dare le risposte desiderate.

Una recente ricerca ha fatto emergere che quasi il 90% degli assistenti sociali ha subito aggressioni verbali. Ma solo in due casi su dieci le aggressioni, specialmente quelle fisiche, vengono denunciate.

E perché non si denuncia?

Forse perché l’ente di appartenenza ti lascerebbe da sola/o?

O magari perché sono casi disgraziati, e una denuncia peggiorerebbe le (loro) cose?

Perché fa parte del mio lavoro?

Ecco la trappola psicologica: vivere la propria professione come accoglienza e condivisione del dolore in maniera assoluta, distorta e passiva, trascurando la propria, ed altrui, integrità e incolumità.

Alcuni (troppi) colleghi, purtroppo, con le parole o con i fatti (anche con l’omissione della denuncia), passano un messaggio molto pericoloso: l’assistente sociale è una specie di missionario, l’ammortizzatore del disagio altrui, l’altra guancia su cui scaricare le frustrazioni.

Quasi a dire: immolami, sono qui per questo.

Niente di più falso e pericoloso: quella dell’assistente sociale, come l’infermiere e l’operatore sociosanitario, è una professione incardinata sull’aiuto. Una professione (con ambito altruistico) esposta a molte criticità: fra queste c’è il rischio di essere considerati come l’incarnazione del torto o la causa del disagio, e pertanto subire aggressioni, verbali o fisiche.

Un rischio concreto che si corre tutti i giorni, che si deve innanzi tutto prevenire, denunciare sempre e che non si deve, mai e per nessun motivo, confondere con un dovere professionale o un diritto dell’aggressore.

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