«Me la toglie una curiosità?» chiese Marco quando si furono alzati.

«Certamente.»

«Ma tutte quelle particolarità che voi offrite per funerali, diciamo, ricercati, vengono richieste davvero?»

«Lei non ha idea di come la gente si sbizzarrisca, quando si tratta di celebrare una dipartita» disse l’addetto.

«Soprattutto quando chi muore era particolarmente odiato.»

A queste parole Marco restò davvero di sasso.

«Esiste uno strano gusto, quasi sadico, nell’oltraggiare l’immagine e la memoria di chi se n’è appena andato e non può più difendersi. Spesso le persone si accaniscono con il fu come se egli, o ella, potesse ancora percepire nella carne la fredda lama del loro ghigno» aggiunse l’addetto, congedandosi.

In queste ultime parole sembrò trapelare una qualche emozione, ma molto lontana.

Marco sorrise con amarezza, guardandolo andar via. Quell’impiegato delle pompe funebri era un individuo particolare, forse apparentemente freddo, ma sin troppo abituato a guardare il lato oscuro e spesso poco onorevole di ciò che la morte lascia dietro di sé.

Alessia accompagnò a quel punto Marco alla camera mortuaria, dove trovarono Ennio steso su un lettino, con un lenzuolo che lo copriva fino al petto.

Il silenzio del locale era intaccato solo dal ronzio monotono dell’aria condizionata, accesa estate e inverno.

Così diverso dal suono delle mosche che Ennio ascoltava, in giardino, immaginando che fossero piccoli musicisti in volo.

Ennio, una persona afflitta da un male incurabile, strisciante e bastardo. Una vittima del tarlo della memoria, della peste del nuovo millennio, del morbo di Alzheimer.

Ma ora sembrava un vecchietto come tutti gli altri, con i lineamenti distesi di chi non ha più pensieri o patimenti; le mani finalmente immobili.

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